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giovedì 11 marzo 2010

Giovanna Giordani



Recensione di Carmen Lama
 
Sulla riva del fiume
di Giovanna Giordani
- Aletti editore -

Sulla riva del fiume: prima silloge di Giovanna Giordani, giunta quasi a sorpresa per lei stessa, che forse non s’era posta prima d’ora il problema di condividere con interessati lettori il suo piacere per la scrittura in versi delle sue emozioni, dei suoi pensieri e sentimenti, attraverso una pubblicazione. Bella sorpresa, invece, per lettori che amano la poesia, come la sottoscritta.
Generalmente inizio la lettura di una raccolta di poesie cercando di decifrare il senso del titolo. In questo caso, mi è venuto in mente per associazione immediata il titolo di un libro di riflessioni sul senso della vita, Sono come il fiume che scorre, di Paulo Coelho. Ma, mentre in quel testo l’autore si identifica con il fiume e ripercorre, anche in senso autobiografico, il divenire e il mutamento continuo, per dar valore alle cose più semplici e belle, ho immaginato che Giovanna stesse invece “osservando” quello stesso divenire e mutamento continuo del mondo e della vita, standosene tranquillamente “sulla riva del fiume”. Il suo osservare, che in realtà si ritrova poi assorbito nei versi poetici, non è però passivo guardare, lasciar scorrere e lasciar accadere gli eventi del mondo, bensì compartecipazione talmente profonda e intima da lasciare di sé impronta e segno visibile in ogni poesia.
L’autrice definisce il suo poetare non ricercato, ma semplice, vero, naif, quasi sottintendendo in questa definizione una sua naturale ritrosia, un suo non sentirsi vera poeta bensì solo una persona che voglia esprimere in versi la sua sensibilità.
E chi ha detto che bisogna scrivere poesie servendosi di lessico ricercato, che spesso potrebbe essere sinonimo di indecifrabile, difficile, non fruibile se non da pochissimi?
Ho piacevolmente assimilato la scrittura poetica naif (per tenere la sua originale definizione) di Giovanna Giordani alla semplicità con cui si leggono, si interpretano e si interiorizzano le sue poesie, poiché questa semplicità si accompagna ad una profondità di pensiero che dà modo al lettore di riflettere e di guardare con occhi nuovi il mondo e tutto quel che vi accade.
Già dalla prima poesia Ah, se potessi, l’autrice mette in primo piano la sua poetica dell’amore, che è il suo modo peculiare di osservare gli eventi del mondo, cercando delle strategie quasi magiche per realizzare il suo intento di vivere in armonia con l’universo, trasformando il suo essere “sillabe d’assenso” nel vero senso della vita che appunto nell’amore può risiedere e in nient’altro. In questo “la poeta” conferma il pensiero di Neruda che sosteneva che “la poesia è un atto di pace”. E non è un caso che la silloge si concluda anche con una poesia nella quale si vorrebbe capire il perché dell’esistenza del male e la sua origine, con la sottile ma non velata intenzione di capovolgerlo in bene.
I primi sonetti, ispirati da racconti, film, eventi reali, o semplici osservazioni della natura, confermano questa attenzione privilegiata della Giordani ai rapporti umani, al senso vero dell’esistenza e alla profondità di un sentimento la cui durata potrà attraversare il Tempo e oltrepassarlo, anche soltanto grazie all’incisione di un nome.
Delicatissimi, poi, sono anche gli haiku, che in brevità e concisione distillano pensieri.
La terza parte della silloge, la più corposa per numero di poesie, è di una bellezza che non si può descrivere, bisogna sentirla e viverla. Ci si rende conto di ciò, a partire dalla poesia che ci presenta “Il volto del silenzio”: solo un poeta può “vedere” questo volto e scoprire perché… “mai saprà spiegare / tutta la luce / che gli brucia dentro”! … perché è un silenzio pregno di parole, di pensieri, di voce, ma non ha voce.
Un’altra bellissima poesia da segnalare è una meta-poesia, che però si contraddice alla fine. Si tratta della messa in scena dell’umiltà della poeta-autrice, ne’ La mia poesia è una regina scalza, che poi è anche una regina nuda e bianca e che, quando diventa nera e “cammina leggera / sulle dune, / (è) incurante se il vento / traccia non lascerà / delle sue impronte”: sta proprio qui la contraddizione della poeta, nel credere che la sua poesia non lascerà impronte, mentre invece le ha già lasciate proprio in questo suo essere movimento discreto che scruta negli anfratti dei cuori.
E si potrebbe continuare svelando l’implicita “semplicità profonda” o “semplice profondità” delle altre poesie.
Ma un recensore deve fermarsi un attimo prima di togliere al lettore il piacere, la sorpresa e la voglia di scoprire da sé il senso e la bellezza di ogni creazione poetica, potendo dare a sua volta libertà alla propria mente di ri-creare significati.
E dunque concludo, riassumendo l’invito a leggere questa silloge, con l’Haiku che mi pare la caratterizzi: “Bellezza”: Alto vertice / di rara perfezione / dono d’incanto.
Carmen Lama

sabato 13 febbraio 2010

LA MORTE

LA MORTE
(di Vladimir Jankélévitch - Ed. Einaudi)
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Recensione a cura di Carmen Lama


La morte, di V. Jankélévitch, è stato definito un libro "sconvolgente".
Si può fare Filosofia della morte e scriverne per 474 pagine dopo aver affermato fin dall'incipit della Premessa che sia "dubbio che la morte sia un problema specificamente filosofico" e che sulla morte "Non c'è proprio nulla da dire"?
È quanto ha fatto in modo veramente sconvolgente questo filosofo ebreo di origine russa e naturalizzato francese, vissuto dal 1903 al 1985, la cui opera filosofica è un vero e proprio compendio di idee originali e di cultura raffinata ed amplissima.
Il libro si suddivide in tre parti, i cui titoli già orientano il lettore riguardo ai contenuti specifici su cui sarà portato a riflettere.
Nella prima parte, che occupa quasi la prima metà del libro, l'autore disserta su "La morte al di qua della morte", portandoci effettivamente ad una lunga riflessione su quanto della morte è possibile confusamente intuire stando all'erta mentre siamo vivi. La sua non è una vera e propria indagine sulla morte, poiché di ciò che è assolutamente impossibile conoscere non si saprebbe neppure come e su cosa indagare. Vi è, invece, un esame approfondito delle varie teorie della morte, dell'anima, dell'essere, del non-essere, del divenire, del nulla, su cui la filosofia classica ha lungamente dibattuto, ed anche un esame delle teosofie, delle visioni filosofico-religiose sugli stessi temi.
Lo scopo principale di quest'analisi è, ovviamente, quello di poter poi confutare le precedenti teorie, dimostrando, per quanto sia possibile su temi così sfuggenti all'ambito razionale, la fallacia di tali visioni o, nel migliore dei casi, come esse siano semplici tentativi di portare una sorta di consolazione e di speranza di fronte all'angoscia del nulla che attende al varco ciascun essere umano, senza peraltro che ci sia alcuna possibilità di sfuggire alla tragedia estrema, al punto ultimo di ogni esistenza, e senza alcuna eccezione per alcuno. Consolazione e speranza che, di fronte alla realtà empirica, ineludibile quanto assurda e tuttavia necessaria, sono forse motivo di maggior disperazione e non offrono comunque alcun appiglio per poter cambiare le carte del destino. Jankelevitch tiene a sottolineare l'impossibilità di rendere "univoco", certo, definitivo, il concetto di morte che è invece un concetto "equivoco", in quanto tiene insieme dei contraddittori, la vita e la morte, e su cui non ci potranno mai essere delle verità definitive.
La dimostrazione di Jankelevitch, pur ammesso che nulla si possa dimostrare con metodi empirici quando l'oggetto su cui si discute è di ordine metaempirico, procede con uno specifico ordine, molto convincente in effetti, poiché il processo filosofico di avvicinamento all'evento straordinario (ma del tutto ordinario), che egli ci propone, risulta a dir poco lampante come una verità di La Palisse. Ci guida, infatti, a distinguere la morte in terza persona, dove ciascuno di noi è semplice spettatore della morte di altri, cosa del tutto naturale, ordinaria, e persino scontata da che esiste il mondo, dalla morte in seconda persona, dove si è spettatori della morte di un congiunto o di una persona cara, la cui scomparsa già appare più ingiusta della precedente, meno naturale ed ordinaria, dalla morte in prima persona, la morte-propria, che contrariamente al buon senso e all'evidenza, appare a ciascuno di noi come altamente improbabile, comunque lontana nel tempo e come un evento del tutto straordinario.
Ponendoci nelle diverse prospettive, potremmo insieme a Jankelevitch seguire il processo di conoscenza di questo istante tragico che è la morte, senza tuttavia poterne avere effettiva conoscenza; al più potremmo giungere ad una "scienza nesciente", che nulla ci dice del nucleo profondo di quell'istante, se mai quell'istante abbia un nucleo essenziale che possa essere oggetto di conoscenza. Jankelevitch porta avanti il suo discorso servendosi di moltissimi esempi, tratti tutti, com'è ovvio, dal mondo di quaggiù, dall'empiria, da ciò che solo può essere oggetto di discorso e di comprensione per un essere razionale, utilizzando anche un'efficace ed originale terminologia, come quando definisce la "semelfattività" della morte, indicando con ciò l'accadere di un evento di tale portata come quello che avviene una e una sola volta e in modo necessario.
La realtà tragica dell'istante mortale è ciò che tutti sanno in quanto si tratta di una "quoddità", ma nessuno conosce la "quiddità" di tale istante: in altri termini, tutti conoscono "il fatto che" ma non conoscono il "che", cioè nessuno conosce le modalità effettive del quod, le sue coordinate spazio-temporali e il modo in cui accadrà. In questa prospettiva, e solo per questa ambiguità della morte che è certa nel suo quod, ma incerta nel suo quid, la vita assume il grande ed inestimabile valore che ha. Valore che si esprime in tutte le azioni che siamo continuamente spinti a compiere, quasi con il sottinteso ed implicito intento di allontanare quanto più sia possibile l'istante supremo ed ultimo.
La morte, inoltre, svolge un compito essenziale quando accade, perché è solo e soltanto da quell'ultimo istante in poi che si ha il quadro completo di un'esistenza. Salvo che per il diretto interessato, per il quale questa nozione specifica non può essere mai posseduta, poiché prima è troppo presto (il quadro non è completo) e dopo è troppo tardi (non c'è più nessuno che possa sapere).
Viene analizzato il va-da-sé del divenire, nel quale consiste la continuazione dell'intervallo che costituisce la vita vera e propria, e che si situa tra il precedente non-essere, da cui ogni esistenza è tratta nel momento della nascita, e il nulla che mette fine a questo intervallo, senza che ci sia null'altro dopo, perché il nulla della fine è un nulla-più, un mai-più-nulla, un nulla definitivo ed una volta per tutte, un nulla eterno. E non ci sono misure comuni per comparare il non-essere precedente all'esistenza con il nulla che segue all'ultimo istante, il quale è un nulla del tutto, nulla di tutto l'essere, in quanto non c'è alcunché a seguire.
Nella sua lunga dissertazione Jankelevitch ci spiazza, anche perché mentre si aggira nei dintorni della morte, afferma categoricamente che mentre siamo in vita la morte non esiste affatto, ogni momento della nostra esistenza è vissuto in tutta la sua pienezza di vita, anche quando incalza l'invecchiamento, tanto è vero che la morte arriva sempre "all'improvviso" anche se sorprende una persona più che novantenne. In questo caso, si è solo percepita una maggiore probabilità, ma mai la sua approssimazione. La morte, vicinissima alla vita in quanto può arrivare in qualsiasi momento senza chiedere affatto il parere, è sempre lontanissima dalla vita. Ed è questa una fra le tante difficoltà di saperne alcunché. Non ci può essere neppure un apprendimento della morte, come certe religioni pretendono quando stimolano i credenti a "prepararsi alla morte". Risulta del tutto inutile prepararsi, vivere continuamente mortificandosi, vivere le piccole morti quotidiane e le rinunce in vista di un bene postumo, poiché non si può apprendere ciò che nessuno ci può insegnare perché nessuno ha mai vissuto l'esperienza, unica - singolare - estrema, della morte-propria, per potercene poi dare neppure la più pallida idea, e perché nulla si sa di questo incerto bene postumo.
In questa prima parte del libro, sono moltissimi i concetti di volta in volta messi in luce, senza tuttavia raggiungere una certezza sull'essenziale: è come fare una sorta di giro panoramico intorno ad una località sconosciuta, ma restando sempre alla periferia, poiché non ci sono mezzi che arrivino al centro.
Nella seconda parte, dal titolo che appare quasi come una sfida per quanto appena detto, Jankelevitch affronta "La morte nell'istante mortale". Qui la dissertazione si fa più insistente, più pericolosa, più dettagliata e sempre più tragica, mano a mano che cerca di avvicinarsi a quel centro inesplorabile che continuamente sfugge e si allontana quanto più sembra stia per essere raggiunto.
È come se il centro fosse dappertutto e per ciò stesso da nessuna parte. Come si può fare per individuarlo in modo esatto per poterlo poi ben esaminare? Ancora una volta si frappongono questioni puramente filosofiche che sono assolutamente ineludibili: la morte è un evento soltanto fisico, biologico, non può essere indagato con strumenti metafisici. Si può tentare di entrare nel dettaglio di cosa rappresenti l'ultimo istante rispetto a tutti gli istanti che l'hanno preceduto, ed affermare la sua assoluta particolarità, senza tuttavia poterlo mai cogliere "sul fatto", neppure quando si tratti dell'ultimo istante di una seconda o terza persona.
In questa seconda parte del libro, sono anche molto interessanti i raffronti che Jankelevitch ci presenta tra i modi in cui in letteratura sono state affrontate le situazioni di morte da parte di alcuni protagonisti di romanzi, di drammi, di opere musicali. Ed è pertanto molto ampia anche la mole di testi indicati nelle note, a cui il filosofo ha fatto riferimento nel suo lungo e complesso discorso filosofico sulla morte.
I quattro capitoli che si susseguono in questa seconda parte analizzano nel dettaglio quell'ultimo istante mortale fuori-categoria, di tutt'altro ordine rispetto a tutti gli altri istanti che compongono il nostro intervallo, cioè il divenire e la continuazione della vita, arrivando fino al quasi-niente dell'articolo di morte, ma eludendo la vera e propria soglia della morte.
Inoltre, viene mostrato come nel tempo dell'intervallo di vita sia l'irreversibilità temporale ad avere la meglio, in quanto, mentre ci permette un'andata e ritorno nello spazio, ci impedisce di fatto un ritorno indietro nel tempo.
Ed infine, una sola nota di vera consolazione (ma di consolazione si tratta?) ci viene offerta da Jankelevitch nel capitolo in cui, pur affermando l'irrevocabilità sia dell'istante mortale sia dell'irreversibile temporalità vissuta, ci mette davanti all'impossibilità di cancellare e nichilizzare, insieme a tutto l'essere, anche il fatto di esser-stato. Una volta che un'esistenza, che poteva anche non-essere, sia venuta alla luce con la nascita, diventando un essere, nessuna morte potrà mai cancellare il fatto che questo essere sia vissuto.
Nessun olocausto con l'annichilimento di milioni di esseri potrà mai cancellare il fatto che questi esseri siano stati.
A questo proposito, vorrei sottolineare come Jankelevitch, filosofo ebreo, la cui esperienza è stata fortemente segnata dall'innominabile tragedia della "morte di massa" di milioni di ebrei, non faccia mai esplicito riferimento a quella mostruosa e immane e gratuita carneficina dettata solo da menti demoniache e folli, tranne in un punto, ma quasi di sfuggita, come uno fra i tanti esempi che adduce per spiegare meglio i concetti che esprime. Ma molto probabilmente, come ci dice nell'Introduzione Enrica Lisciani Petrini che ha curato l'edizione italiana del libro, quell'esperienza è lo sfondo costante e ineludibile di tutta la sua riflessione filosofica sulla morte.
Nella terza ed ultima parte del libro, Jankelevitch torna su alcuni concetti già affrontati, approfondendoli ancora, pur senza darci una virgola in più di conoscenza sul concetto di morte vero e proprio. Se l'indagine riguarda "La morte al di là della morte", e se Jankelevitch ha avuto sin dall'inizio del libro l'intento dichiarato di mostrare l'inutilità delle teorie profetiche o consolatorie circa l'al di là, è del tutto evidente che nulla avrebbe da dire su qualcosa che ritiene assolutamente inesistente. E tuttavia, nei quattro capitoli che compongono quest'ultima parte, prova a chiedersi se l'al di là è un avvenire, che senso ha la paura dell'istante estremo, quali speranze sostengono la capacità di affrontare questo istante tragico in vista di qualcosa di completamente incerto che ci attenderebbe dall'altra parte della soglia. E si sofferma, in particolare, nel dimostrare l'assurdità della sopravvivenza, i concetti di immortalità, di resurrezione e di vita perpetua, distinguendo l'anima dal corpo, ma non nel senso consueto delle filosofie tradizionali. L'anima, per il nostro autore, non è altro che l'essere pensante, l'anima può esser tale solo se esiste un essere pensante, essa non ha un luogo determinato nel corpo, così come i pensieri non risiedono nel cervello ma sono impossibili senza di esso. Dimostrando infine l'assurdità della nichilizzazione dell'individuo, cioè di tutto l'essere pensante, prodotta dalla morte, indugia sulla continuazione della specie che può aver luogo solo a partire dalle singole morti individuali. Sono queste ad innescare quel processo generativo per il quale le nascite sembrano in qualche modo compensare le morti, ma, - ahimé! - c'è di mezzo quell'insostituibilità di ogni singola esistenza che alla fine non rende giustizia, in nessun modo, al singolo individuo. Perché la compensazione quantitativa non ha nulla a che vedere con la sostituzione qualitativa. E questo anche a prescindere che si tratti di un nuovo individuo o che si tratti di una "rinascita" nell'al di là. Non fosse altro perché una rinascita si compie in un diverso momento temporale, e dunque non può che trattarsi di individui diversi.
Mai due volte una cosa, mai due volte un evento! Figuriamoci una persona!
La riflessione conclusiva porta Jankelevitch sul terreno della surcoscienza e poi sui concetti di Amore, Libertà, Dio, nei confronti dei quali afferma la superiorità della morte, ma reciprocamente la loro superiorità sulla morte dal punto di vista generale, in quanto l'eternità della Vita è la stessa eternità della Verità, che nessuna morte individuale potrà mai scalfire.
E dunque, non ci resta che prendere atto che tutto ciò che di noi resterà saranno le azioni giuste che avremo compiuto in quest'unica vita che abbiamo avuto in sorte e, insieme a ciò, il nostro esser-stati, sì minima parte, ma non insignificante, anzi unica, irripetibile e di inestimabile valore, della totalità di un universo. Il fatto d'esser-stati, il fatto d'aver-fatto le cose che abbiamo fatto, il fatto d'aver-amato, nessuna morte potrà mai cancellarlo.
E grazie alla nostra esistenza, la Vita continuerà a dispetto della Morte.
La lettura di questo libro è senz'altro molto impegnativa, ma per chi volesse cimentarsi con un modo nuovo di filosofare intorno a Quella-Cosa che mentre ci appartiene singolarmente non ci appartiene affatto finché viviamo, potrà essere un ottimo esercizio per tenerla lontana, abbordandola con l'appellativo "la morte, questa sconosciuta!", stigmatizzandola e rimandandola alle calende greche. Un ottimo antidoto, insomma. Una sorta di vaccino, per cercare di curare la malattia delle malattie, l'unica davvero incurabile, se non guardandola dall'alto della surcoscienza universale.

P.S.: Ne ho ricavato una semplice "Equazione" che si conclude con un augurio:

La vita sta alla morte
come il sole a una notte
senza luna né stelle,
a cui non seguirà
alcuna nuova alba.

Su questo fondo buio
cupo nero profondo
tanto più sfolgorante
appare a noi la vita.

Che sia un felice intervallo
tra il non-essere e il nulla!

Carmen Lama, 3/2/2010

sabato 30 gennaio 2010

Intervista a Yoani Sánchez

Intervista a Yoani Sánchez

La blogger cubana che ha parlato con Barack Obama

di Orlando Luis Pardo Lazo

Yoani Sánchez è una cittadina cubana privilegiata, perché è la sola che è riuscita a ottenere un colloquio con un Presidente degli Stati Uniti. Nel novembre del 2009, infatti, ha rivolto sette domande a Barack Obama che ha risposto in breve tempo e subito sono state pubblicate sul blog pluripremiato Generación Y. Yoani Sánchez ha realizzato ciò che la stampa ufficiale non è riuscita a fare in mezzo secolo: un dialogo faccia a faccia con il “leader del mondo libero”, il Presidente di un paese che il regime cubano considera il suo principale nemico.

I media cubani hanno ignorato lo storico incontro virtuale. In compenso pubblicano caricature di Barack Obama e l’ex Presidente Fidel Castro Ruiz attacca spesso il Presidente statunitense nelle Riflessioni pubblicate sul Granma. Anche l’attuale Presidente di Cuba, il generale Raúl Castro Ruiz, ha ignorato l’intervista, oltre a non aver mai risposto alle sette domande che Yoani Sánchez gli ha rivolto.

Yoani - che la rivista Time nel 1998 ha indicato tra le 100 persone più influenti del mondo - vive con il marito Reinaldo Escobar e il figlio Teo al quattordicesimo piano di un condominio in stile jugoslavo che domina Piazza della Rivoluzione. Yoani, in passato, si è guadagnata da vivere insegnando spagnolo agli stranieri, ma adesso pubblica articoli su importanti riviste e quotidiani internazionali (in Italia collabora con La Stampa di Torino, ndt). Nella loro casa, Yoani e Reinaldo hanno ideato un concorso per blogger cubani, tengono una libreria e gestiscono un’Accademia Blogger - non ufficialmente riconosciuta dalle autorità - per formare nuovi blogger indipendenti e per far crescere la blogosfera cubana.

Dal suo balcone, contrassegnato con una Y al neon-verde visibile dal monolito di Piazza della Rivoluzione, punto focale dello stato cubano, questa ragazza magra di 34 anni, con la sua pelle quasi trasparente e cascate di capelli scuri, condivide le sue prospettive per il 2010. Secondo molti analisti politici, quest’anno potrebbe essere importante per Cuba. Dal 2008 Yoani Sánchez pubblica Generación Y, un blog tradotto in varie lingue (in italiano da Gordiano Lupi per www.lastampa.it/generaciony, ndt) che conta milioni di visite al mese, ma è inaccessibile per i lettori cubani. Tuttavia, ogni giorno che passa, Yoani è sempre più nota a Cuba perché molte persone ricevono illegalmente i canali televisivi che trasmettono da Miami.

Yoani Sánchez è una cittadina impegnata a espandere la libertà di espressione all’interno dell’isola, ma è indipendente dalle organizzazioni di dissidenza cubana e dai partiti di opposizione. Nonostante tutto è perseguitata da agenti della Sicurezza di Stato e dai giornalisti ufficiali che non perdono occasione per diffamarla e per offenderla. Per realizzare l’intervista a Obama, Yoani ha inviato le domande tramite un amico, ma le risposte le sono state consegnata a mano in terra cubana. Molte persone non credevano che le risposte provenissero da Barack Obama, fino a quando un portavoce della Casa Bianca ha confermato il contenuto dell’intervista.

Il Presidente Barack Obama, parlando a lei e all’opinione pubblica mondiale, ha assicurato che “gli Stati Uniti non hanno alcuna intenzione di ricorrere alla forza militare contro Cuba”, aggiungendo che “soltanto gli stessi cubani sono in grado di promuovere un cambiamento positivo a Cuba”. A suo avviso, il popolo cubano si sente in pericolo e teme un’imminente “invasione imperialista”?

La propaganda politica cubana ha sempre avuto l’obiettivo di mettere in guardia il popolo contro una presunta imminente invasione e di incutere timore nei confronti di un potente nemico che ci minaccerebbe da vicino. Molti cubani non credono più alle affermazioni dei cartelloni propagandistici, ma neppure si fidano di giornali e televisione. Dopo aver ripetuto troppo spesso che era imminente la guerra contro il nostro vicino del Nord, la minaccia ha perso forza e adesso in pochi prestano attenzione a questo tema. I veri problemi di Cuba sono altri, non certo l’invasione statunitense, ma il crollo della produzione, la mancanza di libertà e un potere anacronistico.

Come valuta politicamente il silenzio del Presidente Raúl Castro in risposta alla sua intervista?

Il potere a Cuba non parla ai cittadini. Tenta di mascherare le decisioni che riguardano la popolazione come se provenissero da un dibattito, ma in realtà si delibera in un solo ufficio, all’interno di una famiglia e di clan militari. L’Assemblea Nazionale si limita ad apporre timbri, votando all’unanimità le decisioni prese in altre sedi. Per questo riesco a ottenere un colloquio con il Presidente di un altro paese, mentre il mio Presidente mostra completa indifferenza. Si torna al peccato originale di Raúl Castro: non è stato eletto dal popolo con libere elezioni, ma è salito al potere per eredità familiare, grazie a un legame di sangue, come succedeva nelle monarchie. Pertanto, pensa di non dover rispondere alle domande e alle critiche che provengono dal popolo cubano. Non si ritiene responsabile per non aver fatto riforme importanti, per la crescente repressione e per i mancati miglioramenti produttivi. Detto questo, non ho rinunciato alla speranza che Raúl Castro possa rispondere alle mie domande, soprattutto adesso che conosce le risposte di Barack Obama.

In ambito accademico, tra gli esperti di Cuba, e a livello popolare, si nota una certa mancanza di fiducia in una transizione democratica a Cuba. C’è il timore che il paese potrebbe cadere nell’anarchia o addirittura finire in una guerra civile. Lei cosa ne pensa?

I governanti cubani hanno avuto diverse opportunità negli ultimi cinquant’anni per attuare una transizione graduale e ordinata. Ogni volta che le circostanze favorivano riforme in senso progressista, loro hanno preferito rendere le cose più difficili, scegliendo un maggior controllo e un’asfissiante centralizzazione. Questo atteggiamento ha impedito qualsiasi modifica e ogni apertura rischia di creare fratture sociali e di generare una spirale di violenza. L’attuale governo di Cuba sarebbe il principale responsabile per qualsiasi focolaio di disordini civili, perché ha perso ogni occasione per traghettare il paese verso una transizione ordinata e pacifica. Nonostante lo spettro di un colpo di Stato o di una rivolta popolare ci perseguiti, ritengo che una necessaria e inevitabile transizione a Cuba possa verificarsi pacificamente. Abbiamo la fortuna di vivere in un paese privo di odio etnico e di conflitti linguistici o religiosi. Non abbiamo conflitti regionali che potrebbero portare a guerre civili, quindi lo scontro sarebbe basato esclusivamente sull’ideologia. Sappiamo che molte persone sono obbligate a fingere lealtà verso il sistema attuale ed è impossibile calcolare quante vorrebbero vivere in una democrazia. In ogni caso credo che siano la maggioranza.

In quale misura pensa che Barack Obama abbia mantenuto le promesse fatte in campagna elettorale relativamente a Cuba, nel suo primo anno in carica?

In soli dodici mesi, Obama ha fatto di più per normalizzare le relazioni con Cuba che qualsiasi precedente Presidente americano nel corso di un intero mandato. Non siamo al primo posto nella sua agenda, ma non siamo stati completamente dimenticati. Ha abolito le restrizioni di viaggio per i cubani che vivono negli Stati Uniti e i limiti di invio di denaro per le loro famiglie. Non solo, “minaccia” di consentire il libero turismo nordamericano sull’Isola. Il nostro governo è un po’ confuso, perché ha sempre utilizzato gli Stati Uniti come un alibi alla mancanza di libertà, dipingendoli come un nemico potente e aggressivo. Grazie al suo sorriso e alla sua gioventù, il Presidente americano è ammirato da molti miei compatrioti. Per contrastare quella che sta diventando una vera e propria “Obamamania”, la retorica antiamericana di regime sta fabbricando slogan e frasi volgari tipo “Obama è come Bush, solo che è dipinto di nero”.

Vorrei conoscere la sua opinione sull’embargo e sulla politica di restrizioni economiche statunitensi nei confronti di Cuba.

Credo che queste restrizioni economiche rappresentino un errore della politica americana verso Cuba. Non servono a soffocare la classe dirigente dell’Isola, ma creano solo difficoltà materiali per la popolazione e consentono la radicalizzazione di un discorso ideologico all’interno di Cuba. L’embargo è stato un argomento per giustificare un’improduttiva e inefficiente economia statale, una vera rovina per molti settori. Peggio ancora, è stato utilizzato per sostenere il motto: “in un paese sotto assedio, dissentire equivale a tradire”, che contribuisce alla mancanza di libertà per i miei concittadini. In quasi cinquant’anni il blocco economico non ha mai dato effetti postivi e il potere di chi ci comanda non è venuto meno. Un esempio è la questione dell’accesso a Internet. I nostri governanti hanno sempre detto che le restrizioni in materia di accesso alla rete sono dovute agli Stati Uniti che non consentono a Cuba di connettersi al suo cavo sottomarino. Le vittime di queste restrizioni sono cubani ordinari. Abbiamo dovuto rinviare il nostro piacere di Internet, mentre la polizia, la censura e i media ufficiali navigano in rete senza limiti. Le società di telecomunicazioni nordamericane hanno tentato di negoziare con i corrispettivi organismi cubani e Barack Obama ha cercato di eliminare questa limitazione all’uso di Internet. Il governo di Raúl Castro ha ignorato le proposte e per questo motivo continuiamo a essere “l’isola dei non connessi”. Su questo tema è evidente che la responsabilità è tutta del nostro governo.

Cosa chiederebbe al governo nordamericano e ai cittadini degli Stati Uniti per migliorare le relazioni con Cuba?

In primo luogo, dobbiamo mettere da parte l’idea che le relazioni tra i popoli corrispondano agli accordi tra governi e alle relazioni ministeriali. Tra Stati Uniti e Cuba esiste una storia condivisa, una sintonia e una cultura che non dipendono da patti tra amministrazioni. Un dettaglio linguistico dimostra la simpatia dell’Isola verso i vicini del Nord: nei loro confronti non utilizziamo mai la parola “gringos” con tutte le sue connotazioni negative, ma l’espressione “yumas” che è molto più amichevole. La nostra nazione non è contenuta in un unico territorio; vi sono cubani in ogni parte del mondo e soprattutto all’altro lato dello stretto della Florida. Di conseguenza, il nostro destino è inscindibilmente legato agli Stati Uniti, con il dovuto rispetto per la nostra sovranità. Una maggior collaborazione, più scambi culturali e libere comunicazioni porterebbero vantaggi per entrambi i popoli. Per questo motivo sono favorevole a un’apertura immediata per consentire a tutti i nordamericani di recarsi a Cuba, una volta finito l’embargo e le ostilità nocive della guerra fredda, eliminando tutto ciò che limita i contatti tra i cittadini dei due paesi.

Una generazione di giovani cubani e statunitensi affronta in modo diverso la questione delle differenze fra i due governi e questa generazione comprende sia lei che Barack Obama. Guardando al 2010, dopo mezzo secolo dalla rivoluzione, prevede qualche progresso verso una reciproca comprensione, o crede che lo scontro tra queste due nazioni continuerà ancora?

Per fortuna, il 2010 è iniziato con un aumento di persone che anche a Cuba hanno trovato il coraggio di esprimere la loro opinione. Come mi ha detto un amico, l’anno scorso è stato importante per iniziare a esprimere insoddisfazione e per cominciare a capire che si poteva vincere la paura di parlare. Mi auguro che nei prossimi mesi vedremo quelle voci cantare, in una nuova alba senza tensioni, senza leader che restano al potere per cinquant’anni, e soprattutto senza il timore che oggi consuma la società cubana. Parlo di una nuova fase dove i nostri leader non ci “guideranno”, ma ci “serviranno”, di una fase in cui non si dovranno scandire slogan ma mostrare risultati. Purtroppo molti cubani attendono una “soluzione biologica”, che potrebbe venire con la fine della vita di chi detiene potere. Nessuno può evitare la morte, ma come un grande Saturno che ha mangiato i suoi figli, il nostro sistema non lascerà dietro sé una generazione impregnata delle sue idee e determinata ad andare avanti su quella strada. Stiamo vivendo la fine di un’epoca. Posso solo sperare che il periodo successivo sia più attento alle necessità dei cittadini e che potremo contare sulla solidarietà degli Stati Uniti e del resto del mondo. Obama e il paese che rappresenta, può svolgere un ruolo molto importante in questa apertura di Cuba alla democrazia, ma deve farlo senza interferire con la nostra sovranità e le nostre decisioni. Il 2010 potrebbe essere l’anno decisivo per celebrare una nuova amicizia tra i due paesi. Per quanto mi riguarda, vorrei che accadesse presto. Aprile mi sembra un buon momento per annunciare la primavera e dopo tutto aprile non dovrebbe essere sempre il mese più crudele.

Traduzione di Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi



Molto più spaventati di me

Venerdì è stata una giornata molto difficile, non lo nego. Nella mattinata è venuto a mancare Claudio, professore di fotografia nell’Accademia Blogger, perché è stato arrestato da un agente che esibiva un opaco documento con le sigle DSE (1). Nella nostra classe, dopo le lezioni, abbiamo fatto una piccola festa per celebrare il primo anniversario di Voces Cubanas (http://vocescubanas.com/), che nonostante la sua breve vita contiene già 26 siti personali. Ricordo che tra gli abbracci e i sorrisi qualcuno mi ha detto di fare molta attenzione. “In un sistema come il nostro non c’è modo di proteggersi dagli attacchi dello Stato”, ho detto per scacciare la mia stessa paura.

Verso le sei di sera siamo andati a una riunione familiare. Mia sorella 36 anni fa, nelle prime ore del mattino, regalò a mio padre - per la giornata del ferroviere - il suo primo pianto di neonata. È venuto con noi persino Teo, anche se da buon adolescente non partecipa volentieri alle attività dei “vecchi”. Là ci attendeva il solito compleanno a base di foto, candeline da spengere e il consueto “Felicidades Yunia en tu día, que lo pases con sana alegría….” (2). Ma eravamo spiati da diversi occhi che avevano in mente per noi un programma diverso. Nel bel mezzo della avenida Boyeros, a pochi metri dal MINFAR (3) e dall’ufficio di Raúl Castro, tre auto hanno fermato la Lada scassata sulla quale viaggiavamo e che avevamo preso all’angolo di una strada.

“Non ti venga in mente di passare per calle 23, Yoani, perché l’Unione dei Giovani Comunisti sta svolgendo un’attività proprio in quella strada”, hanno gridato alcuni uomini scesi da un Geely di fabbricazione cinese che mi ha ricordato un forte dolore nella zona lombare. Ho vissuto una cosa simile nel novembre scorso e oggi non avrei permesso che mi mettessero di forza in un’altra auto, questa volta insieme a mio figlio. Un uomo enorme è sceso dal veicolo e ha cominciato a ripetere le sue minacce. “Come ti chiami?”, ha chiesto Reinaldo, ma lui non ha avuto il coraggio di rispondere. Dal corpo slanciato di Teo è uscita una frase ironica: “Non dice il suo nome perché è un codardo”. Peggio ancora, Teo, peggio ancora, non dice il suo nome perché non si riconosce come individuo ma è soltanto un portavoce di persone che stanno più in alto. Una macchina da presa professionale filmava ogni nostro gesto, attendendo una posa aggressiva, una frase volgare, un eccesso d’ira. L’iniezione di terrore è stata breve ma il compleanno è diventato amaro.

Come possiamo uscire indenni da una simile situazione? In quale modo un cittadino può proteggersi da uno Stato che comanda la polizia, i tribunali, le brigate di risposta rapida, i mezzi di diffusione e ha la capacità di diffamare e mentire, il potere di linciare socialmente e di trasformare una persona in uno sconfitto che chiede perdono? Perché hanno così paura? Cosa pensavano succedesse oggi nella calle 23 che hanno fermato diversi blogger?

Il terrore che provo quasi non mi fa digitare i tasti del computer, ma voglio dire a chi legge che oggi sono stata minacciata insieme alla mia famiglia e che quando una persona raggiunge un determinato livello di panico una dose maggiore non cambia la situazione. Non voglio smettere di scrivere, né di digitare frasi su Twitter, non sto programmando di chiudere il mio blog, non abbandonerò l’abitudine di pensare con la mia testa e - soprattutto - non voglio smettere di credere che loro sono molto più spaventati di me.

Traduzione di Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

Note del traduttore:

(1) Il DSE è il dipartimento che contiene i Sevizi Segreti, la polizia politica e la Sicurezza di Stato.

(2) “Felicidades Yunia en tu día, que lo pases con sana alegría….”, letteralmente significa “Auguri Yunia nel tuo giorno, trascorrilo con sana allegria…”, è il corrispettivo del nostro “Tanti auguri a te”.

(3) Il MINFAR è il Ministero delle Forze Armate.

martedì 29 settembre 2009

Poesia Il Foglio

IL FOGLIO LETTERARIO EDIZIONI

Associazione Culturale

Editoria di qualità dal 1999

Sito internet: www.ilfoglioletterario.it

Programmazione editoriale

P O E S I A

Nell’ambito della nostra politica editoriale volta a privilegiare opere di qualità e particolarmente innovative segnaliamo l’uscita della silloge poetica:



Esperienza degli affanni, di Nicola Vacca

Collana Plaquette

Pagg. 90 – ISBN: 978 - 88 - 7606 - 242 – 1

Prezzo: € 6,00

...il vuoto che cresce annuncia tumulti...

La musicalità, il ritmo, tutto emerge con semplicità e al contempo con profondità. Le parole toccano il lettore coinvolgendolo anche nelle tematiche più dure, quotidiane, per immergerlo poi in una dimensione lirica di altissimo livello. Una voce di esperienza che coinvolge, attrae e si fa nostra. (Giulio Maffi)

Leggiamo la lirica La crisi che apre la raccolta: La vita non è facile/ lo sanno i poeti./ Tutte le mattine/ fanno i conti con le parole/ camminano senza mappa./ Tengono tra le mani/ la poesia che succede nella crudeltà/ di un altro giorno di paura.


Come ordinare

E' possibile acquistare i libri de Il foglio direttamente dal sito dell'editore: www.ilfoglioletterario.it - e a mezzo mail ilfoglio@infol.it - Spediamo in contrassegno con soli due euro di spese postali, ma si può anche fare un bonifico anticipato o un versamento su ccp 19232586.

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giovedì 3 settembre 2009

Ginnastica d’epoca fredda





Ginnastica d’epoca fredda
di Sergio Sozi
Posftazione di Gianfranco Franchi
Nota storica a cura di Gianclaudio de Angelini
Edizioni Historica
www.historicaweb.com
info@historicaweb.com
Collana saggi
Narrativa racconto
Saggio letterario
Pagg: 95
ISBN: 9788890357251
Prezzo: € 10,00


Strano libro, questo, quasi un ibrido, composto com’è da un racconto breve e da un saggio letterario, un insieme che normalmente potrebbe stonare , ma che nel caso specifico offre un risultato pregevole, risultando entrambi i pezzi due autentici gioiellini.
Comincio dal racconto, né breve, né lungo, oserei dire il giusto, proprio perché non c’è nulla di troppo, né si notano assenze nel discorso, condotto in un italiano ormai raro, forbito senza essere lezioso, scorrevole senza essere impetuoso.
La vicenda in sé è grottesca, perché il protagonista, Poliorcete Visentini, dove l’etimologia greca del nome significa assaltatore di città, è l’oggetto di una diabolica scommessa delle autorità italiane e jugoslave (siamo negli anni cinquanta), un gioco infame a cui il personaggio si sottrarrà in un finale esemplare, rivendicando la propria dignità di uomo.
In queste righe, oltre a essere presente tutta l’assurdità della politica, viene evidenziato il ruolo di suddito di qualsiasi cittadino, merce di scambio, individuo da dominare, oggetto in pratica di giochi di potere.
E’ questa prospettiva che dona universalità a un racconto che sembrerebbe agli inizi limitato solo al fenomeno contingente delle persecuzioni subite nel dopoguerra dagli italiani nei territori dell’Istria e della Dalmazia.
Sozi sembra dirci che quello che accadde in un certo buio periodo potrebbe accadere nuovamente, anzi accade sempre, continuamente entro e oltre ogni confine. E riguardo ai confini pare evidente che siano solo frutto di un calcolo umano, perché Poliorcete, anche se sta di là, sempre italiano resta e la sua casa, la sua famiglia sono un’isola di italianità, perché non è possibile negare le origini, se non rinunciando alla propria dignità.
In questa doppia chiave di lettura il racconto finisce con l’assurgere a uno stupendo canto di libertà.
Per quanto concerne il saggio (La Letteratura degli Italiani di Istria, Quarnaro e Dalmazia – un breve sguardo) presenta la caratteristica di essere abbastanza breve, eppure esauriente.
Con un’osservazione che parte dal XXIII secolo per arrivare al XX, Sozi fornisce un quadro di quanti, residenti in quelle terre geograficamente italiane da sempre, ma politicamente fino alla fine XVIII secolo, nonché per il breve periodo successivo che va dal 1919 al 1945, hanno lasciato segno in campo letterario, ovviamente scrivendo nella nostra lingua.
Sono molti di più di quanto si possa pensare, segno di una vitalità culturale di tutto riguardo e presente ancor oggi in territori che ormai da tempo non sono Italia, ma Slovenia e Croazia.
La mano di Sozi sa essere leggera, tracciando dei vari autori non tanto una descrizione didascalica, ma evidenziando il significato della loro opera rapportato al tempo in cui vissero.
La lettura così si presenta agevole e consente di fare un progressivo punto della situazione, insomma di avere delle idee un po’ più chiare su quello che è stata la produzione letteraria in quei territori.
Mi sembra superfluo aggiungere che Ginnastica d’epoca fredda è sicuramente raccomandabile.


Sergio Sozi è nato a Roma nel 1965 ed è vissuto nel perugino dal 1969 al 2000, anno in cui si è trasferito prima a Capodistria e poi a Lubiana (Slovenia), dove attualmente vive e lavora come insegnante d'italiano, giornalista culturale, scrittore e traduttore dall'inglese, il francese e lo sloveno. Pubblica di cultura dal 1989 su quotidiani (L'Unità, 10 DIECI diretto da Ivan Zazzaroni, Il Giornale dell'Umbria), blog, siti e riviste cartacei e telematici e nel 1995 ha fondato e diretto il trimestrale culturale nazionale ''I Polissènidi''. Il suo primo libro fu la raccolta poetica ''Oggetti volanti'' (Perugia 2000, segnalato dal Premio Sandro Penna 1999), seguito da ''Il maniaco e altri racconti'' (Roma 2007, racconto eponimo segnalato dal Concorso Scritture di Frontiera).
Il racconto ''Ginnastica d'epoca fredda'', prima di essere pubblicato in Italia da Historica Edizioni, è stato segnalato e antologizzato in Croazia nel 2008 a cura del Premio Fulvio Tomizza – Lapis Histriae. Il suo prossimo libro sarà il romanzo ''Il menú'', che uscirà dopo l'estate del 2009 per l'editore Castelvecchi.

mercoledì 8 luglio 2009

GIOCHI IN SPECCHI D'ACQUA

di Maria Attanasio




“La poesia è un gioco, un entrare e uscire dalla vita, un'altra occasione di vita.
Come accade per le immagini distorte che si riflettono in uno specchio d'acqua, pozza di pioggia, lago o mare che sia, così nella poesia ognuno ci vede quello che vuole...”
Questo il messaggio di Maria Attanasio, poetessa che amo particolarmente per le tematiche e per la struttura delle sue poesie. Omonima di un'altra Maria, forse più nota, non ha nulla di invidiarle, anzi...
La profondità del suo sentire è tale che si rimane affascinati, avviluppati dalle onde dei suoi splendidi versi.
E poi c'è l'umanità espressa in ogni sua valenza, forte, decisa quando occorre, dolce, delicata , quando tocca argomenti come l'amore e la morte, di solito così difficili da trattare senza cadere nel déja vu o nel banale.
Ci sono dei passaggi che trasmettono un respiro di assoluto, un anelito d'oltre cui è impossibile sottrarsi.
“Nemmeno il tempo di capire
o di farmi fretta per provare a trovare
la chiave giusta per la porta del tuo dolore
aprire entrare e distruggere tutto
per inventarti un altro modo di vivere
per darti un'aria meno pesante da respirare
e portarti lontano da qui perché il destino non ti trovi.”

Cè forse in questa, il significato di un amore che travalica il tempo, che vorrebbe fare da barriera al dolore, che non si dà pace per la consapevolezza di quanto sia impossibile.
Ancora, in chiusura quasi: “Un giorno”
Un giorno chiuderemo porte e finestre
il mondo lì fuori non saprà più nulla di noi
per un po', il tempo di dirsi tutto
almeno quel poco che resta da dire
dopo tanto tempo insieme
le mani si riconoscono e gli occhi
già sanno quando l'altro ride.

Leggere le poesie di Maria è come immergersi in un mare cristallino, dove le parole riescono a scandagliare il fondo, mai abisso, e dove la riva è sempre possibile attracco.
Comunicano un senso di smarrimento, a volte, ma subito investito di una luce a soccorrere, e questa luce è sempre l'Amore.
Se potessi dare una definizione di questa eccellente poetessa, direi che è un delfino che comunica oltre il suono stesso, che proietta verso l'infinito il suo esistere.

Cristina Bove


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martedì 7 luglio 2009

Segni


Tinti Baldini



“Straniero
ti senti
e sei
se parli
e tutti
sanno già
o fanno finta
d'indossare
colori di mare
coi tuoi occhi.”

Mi piace riportare questa poesia di Tinti Baldini, tratta dalla sua silloge “SEGNI” perchè racchiude in sintesi l'anima dell'Autrice.
Tinti racconta con la sua voce delicata, forte quando occorre, con inconfondibili toni, della sua vita, delle sue riflessioni sulla condizione umana, degli amori finiti e di quelli ritrovati.
Anche la quotidianità passa attraverso il filtro della sua poetica e ci viene offerta con una gamma di emozioni che fanno vibrare nel profondo.
Ci si trova a condividere attimi di sconforto, oppure di allegria, di lucida analisi o di mirabile sintesi, tutto con l'umanità più vera che traspare in ogni suo verso in ogni sua parola.
I versi brevi hanno una risonanza particolare, che sembra scandire anche il pensiero.
La poetessa ci mette di fronte anche all'iniquità di una società che non trova equilibrio né giustizia, dove la fratellanza è sentire di pochi, e il saggio governo un'utopia.
Sceglie una forma sincopata, fatta di brevissimi versi, taglienti come lame, a volte, spesso quasi ruvide carezze. Eccone un magnifico esempio, ungarettiano direi:
“Tramonto
Sfumato ardente
posato da mani
di nuvola.”
Le sue tematiche personali sono nitide, aperte con coraggio a chi legge, che lasciano trasparire sempre il suo aspetto umano e poetico, in una perfetta fusione.
Ecco, in poche parole, una minima parte di quello che mi trasmettono le sue poesie.
Ne leggo ogni tanto qualcuna, e ogni volta è come affacciarmi su un limpido mare.

Cristina Bove