Titolo: La barba d’oro di Godot. Profili di poeti e artisti del nostro tempo
Autore: Augusto Benemeglio
Editore: Edizioni DivinaFollia
Collana: Fuorionda
Prezzo: € 15.00
Data di Pubblicazione: 2014
ISBN: 8898486286
ISBN-13: 9788898486281
Pagine: 246
Reparto: Studi letterari > Storia e critica della letteratura > Studi letterari di carattere generale
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domenica 1 giugno 2014
Anna Maria Curci legge Augusto Benemeglio
Augusto Benemeglio, La barba d’oro di
Godot
Villaggio Cultura – Pentatonic, 1°
giugno 2014
Quando penso ad Augusto Benemeglio la prima associazione che
mi viene alla mente è una scena dal teatro nel film Chiedimi se sono felice. I tre amici Aldo, Giovanni e Giacomo, tra
battute, disavventure, comici malintesi e ‘trentini’ notturni a basket, tentano
di allestire una versione propria, senz’altro originalissima, di Cyrano de
Bergerac. Ecco, la scena del saluto iniziale tra Cristiano e Cyrano nella
messinscena che ben rende l’atmosfera –
talvolta guascona, sempre piena di vita e attenta al dettaglio che ad altri
sfugge - di serissimo gioco del teatro, ché dietro l’apparente caos, l’allegra
o torva confusione, c’è un pensiero che tende al sistema e che è nutrito e reso
consistente e durevole da passione e ricerca. Qui al Villaggio Cultura–Pentatonic abbiamo
avuto modo di conoscere Augusto Benemeglio come autore di originali – che lui
ama chiamare “recital” – ricostruzioni delle vicende artistiche e biografiche di
Federico Fellini, Rocco Scotellaro, Fabrizio De Andrè, come animatore
dell’incontro sul brigantaggio nel Meridione; alcuni di noi hanno avuto modo di
assistere, o perfino di partecipare, alle rappresentazioni del gruppo da lui
creato presso il Teatro “Don Mario Torregrossa”. La passione che Augusto
profonde in tutto quello che fa e organizza è grande e contagiosa.
Ora, in questo volume che presentiamo oggi, La
barba d’oro di Godot sono raccolti alcuni esempi della sua attività
instancabile di lettore e di affabulatore. È giusto dunque, innanzitutto, introdurre
alcuni dati della sua biografia, come ce li riporta Abele Longo nella sua
prefazione a La barba d’oro di Godot.
«Conosciuto anche con il nome d’arte di
Augusto Buono Libero, Augusto Benemeglio nasce a San Buono (Chieti) il 22
agosto 1943. Presto orfano di madre, vivrà a Roma con la nonna paterna mentre
il padre, e a cui dedicherà il poemetto Ultimo tramonto in Sudafrica (2008), si trasferisce in Sudafrica.
Si arruola in Marina e nel 1977 sbarca in quella che sarà la sua terra
elettiva, il Salento, a Gallipoli, città di molti dei suoi libri, come il
romanzo L’isola e il leone (1984)
e la favola L’isola della luce (1992),
oltre che di lavori teatrali come La Santina di Gallipoli (1994).
Lavora come giornalista, per diverse riviste e per una televisione locale, e mette su una compagnia teatrale di attori non professionisti con la quale girerà in lungo e in largo la penisola salentina. Una volta in pensione, ritrova le sue origini romane trasferendosi ad Acilia, dove continua la sua fervida attività di scrittore e riprende la passione per il teatro, fondando il Gruppo Recital 2010. Un gruppo, come dice Augusto, nato dalla “fusione casuale e arbitraria di spregiatori della quiete, del fratello fuoco e della sorella televisione,” di gente assolutamente fuori “dalla mischia degli intellettuali”. Un gruppo che rispecchia lo spirito del suo fondatore, fuori dagli schemi, allergico alle correnti e alle etichette, profondo conoscitore delle debolezze umane e del ruolo consolatorio, e perciò prezioso, dell’arte.»
Lavora come giornalista, per diverse riviste e per una televisione locale, e mette su una compagnia teatrale di attori non professionisti con la quale girerà in lungo e in largo la penisola salentina. Una volta in pensione, ritrova le sue origini romane trasferendosi ad Acilia, dove continua la sua fervida attività di scrittore e riprende la passione per il teatro, fondando il Gruppo Recital 2010. Un gruppo, come dice Augusto, nato dalla “fusione casuale e arbitraria di spregiatori della quiete, del fratello fuoco e della sorella televisione,” di gente assolutamente fuori “dalla mischia degli intellettuali”. Un gruppo che rispecchia lo spirito del suo fondatore, fuori dagli schemi, allergico alle correnti e alle etichette, profondo conoscitore delle debolezze umane e del ruolo consolatorio, e perciò prezioso, dell’arte.»
Il tratto, inconfondibile e anticonformista, che accompagna
tutte le manifestazioni pubbliche e, per noi che proviamo riconoscenza per la
sua amicizia, private di Augusto Benemeglio, si ritrova negli scritti raccolti
qui. Mi piace metterne in evidenza tre aspetti: lo sguardo del lettore e
affabulatore, che naviga con provata esperienza nelle acque comuni e altrui, si
immerge, affonda le mani in materie affini e oscure; l’attenzione ai luoghi; il
collegamento, agile e argomentato, alle grandi voci della letteratura in
particolare e dell’arte in generale.
Augusto Benemeglio sa volgere uno sguardo attento ed esperto,
si è detto, all’altro e all’altrui materia dei sogni. Non è uno sguardo
distaccato, non disdegna l’empatia, ma è pur sempre lucido e sa rendere con
enunciati chiari e significati la sostanza di quei sogni, le caratteristiche di ciascuna scrittura.
Scrive, ad esempio, di Narda Fattori: «si
dimostra una che non cerca consolazione e lacrime dalla poesia, ma piuttosto il
destino della verità, per quanto dura e spietata possa essere. È un tipo che
vuole andare avanti, approfondire, bruciarsi in questo gioco che diventa vita.
Predilige tutto ciò che si fende, si spezza, che è rigido, duro, “virile”, pur
nella sua stupenda femminilità»; e, ancora, di Pasquale Vitagliano, in un
passaggio che ben mostra il talento di Augusto nell’evidenziare gli
‘universali’ della poesia: «E tuttavia rimane il mito che alla fine ci salva. È
il mito della scrittura, l’utopia. Un sentiero difficile e doloroso da
percorrere, ma che Pasquale ha voluto intraprendere con una certa
determinazione. È un requiem senza tenebre, dove il cuore si fa cenere»; della
poesia di Lorenzo Poggi afferma: «Una poesia che sembra presa dal Qoelet, il
libro della Bibbia più enigmatico (e pericoloso) che ci sia. Mi ricorda
l’ultima voce di un uomo che con la sua tristezza insanguinò il vento. E allora
tutti gli angeli persero la vita. Fuorché uno, ferito, con le ali mozze. E
quell’angelo divenne il poeta. Anche Lorenzo Poggi è un poeta dei nostri tempi,
che vive il presente perpetuo nelle sue ossa e nell’anima, in mare aperto».
Degli autori presi in esame viene sempre sottolineato il
legame con i luoghi d’origine e di adozione. Nel caso di Annamaria Ferramosca,
ad esempio, è la capitale, terra d’adozione a rivestire un ruolo di primo
piano: «Ma Annamaria è cittadina del mondo, soprattutto cittadina dell’Urbe: “è in Roma babelica/ che vivo immersa nella
calca” e viaggia spesso in Metropolitana,
che ricorda un po’ la Circolare rossa cardarelliana degli anni Quaranta. Anche
lei guarda visi di uomini e donne, “Tra
foglie e nuvole, a tratti / Eur, Magliana, San Paolo, mi dileguate / quest’aria nera di gallerie romane, / siete
ridenti, oggi, in abiti e parole…”».
Con Ivano Mugnaini, invece, è la nativa Viareggio a far
sentire la propria voce: «Mugnaini è uno di Viareggio, che conosce bene l’arte
delle maschere e delle sfilate dei carri carnascialeschi sul lungomare, il
galoppo dell’onda sulla battigia invernale, coi suoi ossi di seppia, le statue
scolpite dal vento e la danza del mare; uno che è “ancora” toscano e conosce l’arte della Lingua Italiana e della
Parola, che è “l’unico strumento che media mondo e sentimento e, allora deve
essere perfetta”. Se saliamo un poco più su, siamo già in altre terre, in
culture diverse, di frontiera».
Infine gli accostamenti ai grandi della letteratura e
dell’arte, in una visione d’insieme, dal respiro ampio e dalla vista acuta, dalla
conoscenza profonda e dall’udito sensibile a rime, ritmi e timbri, dall’eloquio
privo di falsi timori e, anche in questo, controcorrente. Non manca, in queste
associazioni, il gesto teatrale. Eppure esso è sempre funzionale
all’argomentazione, non è mai istrionica boutade, mai fine a se stesso.
Augusto Benemeglio legge insieme Doris Emilia Bragagnini ed
Emily Dickinson: «Doris non cerca di abbellire se stessa, né adornare la
propria spiritualità, si descrive com’è, come farebbe una Emily Dickinson dei
nostri tempi […], e che tuttavia, pur rimanendo tappata nella sua stanza, senza
voler incontrare nessuno, farebbe uso anche lei del computer, e magari si
farebbe un blog tutto suo, come Doris, e cercherebbe dei contatti con altre
persone sensibili, con i frequentatori di quel nulla infinito e misterioso che
è la poesia».
Per Dominique Villa, che accosta a Mallarmé e a Lautréamont, Augusto
Benemeglio scrive: A Dominique non avevo detto nulla di un vago accostamento
con Novalis (il poeta è un puro acciaio duro come la selce), il poeta che
flirta costantemente con la morte […] Questo precipitare mi rimanda a tanti
poeti […]. Da Hölderlin, vagabondo per le strade del mondo, o chiuso come un
pazzo […] nella torre sul fiume, a Baudelaire paralizzato, cieco da un occhio,
che articola a fatica le labbra per dire con un filo di voce: “Bonjour
Monsieur”; da Verlaine, tra i rifiuti di Parigi, che contende cicche ai
barboni, alla Cvetaeva, coi capelli incollati dal sudore e dal fango, morta di
fatica e di disperazione, che sale su una seggiola, getta una corda sopra una
trave e s’impicca… a Esenin, che va a morire, senza più identità, né contadino,
né borghese, in un bagno pubblico di Mosca, a Pavese, con il suo vizio
assurdo[…]. E la poetessa sembra che sia lì, presente e lo descriva
chirurgicamente prima del gesto ferale».
giovedì 28 marzo 2013
Fabrizio Centofanti
Editore
Clinamen
Collana Il diforàno
Formato
Libro
Pubblicato
25/01/2013
ISBN-13 9788884101907
Recensione di Augusto Benemeglio
“Nulla si edifica sulla pietra, tutto
sulla sabbia, ma noi dobbiamo edificare come se la sabbia fosse pietra”
(J.L.Borges)
1.La Basilica
“Yehoshua
” di Fabrizio Centofanti , editrice clinamen, 2013, è un romanzo scritto
con la penna intinta nel proprio sangue, un po’ come faceva Van Gogh con i suoi
dipinti. Scrive l’autore: “”Vorrei occhi che potessero vedere. Un
cuore che sappia ascoltare. Vedere Dio con la mia carne” e, secondo me, queste tre cose si sono
avverate, realizzate, concretizzate in questo libro, che ha in sé anche una
componente da thrilling sacro, un po’
com’è il Vangelo di Marco – ripete
spesso lo stesso autore dall’ambone – che finisce con le donne che “ fuggirono via dal sepolcro perché erano
piene di timore e di spavento. E non dissero niente a nessuno, perché avevano
paura.”
Del resto,
l’incipit del romanzo è già una dichiarazione d’intenti, in questo senso. In
una Basilica imprecisata, - che si eleva nel cielo, col peso infinito della
luce, col sudore della terra, che sale su, su, bruciante, fiammeggiante, che è
una maschera sacra che consuma volti di pellegrini ignari, - una bomba è
deflagrata, “pezzi di ferro, legno e
carne umana che volano in ordine
sparso nello spazio diventato incandescente, una nuvola dai contorni indefiniti
che consuma tutto ciò che tocca, riducendolo in polvere ustionante”.(vds.pag.18)
Perché
questo ennesimo attentato, questo terrore che non finisce mai di finire? Perché
questa distruzione senza requie e senza pace? Perché ancora morti, feriti, vittime innocenti, dolore
e sangue?. . Non si saprà, fino
all’ultima pagina del libro, quando tutti i personaggi e i volti di questa
folla anonima avranno un nome, si ergeranno, saranno rivelati, e i fatti narrati
avranno il loro compimento, la loro fatale conclusione.
2. Una sinfonia segreta
“Yeoushua
“ è una storia inedita dove il presente
è perpetuo; i canti, le lagne, le barbe, i mitra, l’alto fulgore scolpito a martellate, le
radure del silenzio, i fiumi, le grida
dei bambini, i pianti delle donne sotto la croce, le speranze ritornano come un giorno perpetuo che fa un
salto di duemila anni. E’un romanzo
unico intenso originale, con tanta potenza narrativa , tanta attualità e tanto lirismo. E tuttavia, o forse proprio
per questo, rimane fuori dal mondo editoriale-letterario, che, diciamolo una
volta per tutte, è il regno della falsificazione e della mistificazione .
Questo libro
è stato scritto come una sinfonia segreta, che utilizza diversi registri, alla
maniera joyciana, il monologo interiore e il flusso di coscienza, la
focalizzazione multipla per mezzo della quale il lettore viene coinvolto
interamente nella verità della narrazione perché legge, metaforicamente, nel pensiero
dei personaggi, abita nel loro inconscio. Facendo largo uso anche del
flash-back, Fabrizio usa le parole come strumenti musicali: dal cadenzato e
virile squillo delle trombe al lamento dei fiati e dei legni, alle pause quasi
singhiozzanti degli archi, ai grandi balzi dei contrabbassi, la parabola,
l’ascensione e l’agile arabesco dei violini.
Questo spartito musicale fatto di parole ha – l’abbiamo accennato –un
inizio apocalittico, da danza infernale, da “Una notte sul monte Calvo” di Mussorgskij, e poi si fa man mano canto di
speranza e d’amicizia, onda potente di mare su cui naviga una barca, che
continua ad essere il fragile incontro della parola con l’altrove.
“Dalla barca si
comprende bene la complessità del mondo: lo stato liquido, la fluidità di
pensieri e sentimenti cullati nel ritmo ipnotico della risacca, ma anche le
tempeste improvvise e imprevedibili, che spazzano all’istante la costruzione
paziente di una vita”(vds.
Pag 24).
3. Lasciarsi abbracciare
Parole
strappate al silenzio, all’angoscia del vivere, parole semplici del Vangelo che
si rinnovano costantemente e rappresentano il versante della speranza, parole
che “daranno luce ai giorni” per la scoperta di nuove terre, nuovi mari e nuovi
cieli. Yehoshua “ha una parola capace di smuovere le folle//. Dice che il bene cresce
come un seme// Dice che tutto il potere non vale la visita a un malato,
l’accoglienza dell’estraneo o del nemico; dice che la superbia dei capi si
sbriciola di fronte all’affanno del prete di frontiera, perché il cielo ama ciò
che i capi disprezzano” (vds.pag 150.).
Parole scritte da un frequentatore dell’Assoluto, un tessitore finissimo di
trame liriche, ma anche un uomo fortemente radicato nel suo tempo e nella
storia, direi nei gemiti e nella spazzatura della
cronaca di tutti i giorni, a contatto
diretto con la realtà sociale e umana più degradata, dei poveri, dei reietti,
dei diseredati, degli ultimi, uno che da sempre cerca Yehoshua in tutti i luoghi possibili della terra. Dio, l’”Inafferrabile”,
l’“Indicibile”, si incarna ancora una
volta e si cala nella nostra realtà, nella cronaca che vediamo tutti i giorni riflessa nei telegiornali, sui siti internet, su You tube,
che ci portano in casa i fatti e misfatti della Palestina, una terra
devastata dagli attacchi di suicidi jihadisti, dalla guerra civile endemica,
dalla paura del domani, sui cui ogni sera s’accende comunque la luna, che si alza all’improvviso, testimone involontaria
di omicidi e guarigioni (pag.27)// La
luna è luna dappertutto, ma sul cielo di Yerushalaym fa un effetto speciale.
Forse è la concorrenza con la moschea di Omar, o perché è un pallone lanciato
verso il cielo, una partita senza vincitori, uno scontro sanguinoso tra squadre
che si giocano la vita ( vds. Pag 124). Ma anche stavolta le sue parole
rimarranno inascoltate, incomprese:
-Yehoshua, ho paura che nessuno
intenda.
-Eppure basta poco: è sufficiente
rinunciare all’idea di Dio e lasciarsi abbracciare dal suo corpo.( vds. Pag.147)
4. L’utopista
Del resto,
dalla penna di un incrollabile utopista che crede ancora nella bontà dell’uomo,
nella sua redenzione, non poteva venir fuori altro che questo suonatore di oboe
e di clarino, un arpista con la faccia da poeta, che si ricopre della polvere
degli ultimi e si mette in testa di
cambiare il mondo. Un figlio del deserto e dei miracoli (o miraggi?) in un
paesaggio da panno nero lacrime e zolfo, che si mescola a questa scrittura
densa, rossa, da giorno delle palme e settimana di passione. Uno che percorre
la via dolorosa e implacabile della luce e della polvere, del vino e della
pietra; uno che diventa amico delle fanciulle
perdute come Magdelenne, o della dinamitarde come Avigail.
Yehoshua è un uomo strano (“Chi sei, Yehoshua?, voglio capirlo”), fermo
nei suoi propositi, immobile, senza lamenti pur nella feroce persecuzione, negli sputi,
negli insulti, nella atroce tortura, nelle offese, uno che predica sulla cresta
dell’onda, col mare in tempesta, uno che
disegna cerchi nella polvere e li cancella,
uno sbandato che si rifugia negli orti degli ulivi dove suda sangue; un predicatore da ultima spiaggia, da nostra Signora dell’altra Riva che ha una
parola folle che fa scoppiare tutte le altre parole (- Che diritto di esistere può avere un culto che mette al primo posto il
fasto degli abiti, lo scintillio dell’oro, dietro i quali s’indovina la bava
immonda dell’ambizione, il desiderio di potere? – vds. Pag.149); insomma, un uomo assurdo, paradossale, un cacciatore
implacabile di utopie, che vuole salvare l’uomo, come il suo autore, fatto di sogni,
tenerezza, fragilità e disperazione; ma
è anche una roccia ardente, che sa di
fiamma e vapore acqueo, uno che
cerca il martirio a ogni costo… Come si
può andar dietro a questo anarchico, questo sbandato che divide il pane, rialza i paralitici e risuscita i morti; ma
rimane tuttavia un improvvisatore, un estemporaneo, un poeta che ha i piedi
nell’aria, uno che non sa nulla di politica economica, che non ha uno straccio
di progetto per il futuro. Una sorta di “Che Guevara” della Palestina, un rivoluzionario senza
mitra, senza spade e pugnali, ma – chissà perché - dicono sia pericoloso perché parla di uguaglianza, di
dignità umana da difendere contro tutti e tutto, dei diritti dei diseredati, e perché si
fa scaglia contro gli abusi del potere, la difesa degli interessi e i privilegi…Ma cosa vuole questo Yehoshua da noi?,
Vuole tutto, perché dà tutto, e senza di lui non siamo niente.
5. Confessione di un prete-poeta
Lui è più
luminoso del sole, è come un mare pieno di braccia, ogni sua carezza dura un
secolo. E’ un’architettura di suoni melodiosi. Vicino a lui ci si sente vivi.
Ci si riposa
nella certezza immobile e abbagliante, semplice e immensa, di una verità: noi
siamo eterni, non moriremo mai. Yehoshua porta dentro di sé un fuoco,
una luce, una fede. E Le fedi sono fiamma oscillante davanti alla faccia della
morte: il male e il bene si guardano negli occhi per capire a chi tocchi
l’ultima parola. Forse non altro è
Dio / che questa piena felicità,/questo fermo guardare/ la vicenda che si
eterna/ a un accordo invisibile. L’avvento
è dove nell’orbita/s’innalza la coscienza d’esistere/ nella luce ove il cielo s’inarca/ e tocca il
mare, /dove volano creature pazze ad
amare/ il viso d’Iddio caldo di speranza
. E’ questa l’intesa fluttuante con tutto il creato, con la natura cordiale
di certi momenti di grazia, quando ognuno è un po’ parte dell’altro, quando si
è amici perché inscindibili da qualcosa di
comune e di immenso, e ci si chiede dove possa risiedere l’amore…”forse
è una dolcezza che chiede intervalli aspri”, scrive Fabrizio.
Questo
romanzo è anche la confessione di un prete-poeta “per sempre”: “Io sono tutti voi, sono una comunità, sono un popolo intero. Certo è che devo pagare per
tutti, devo pagare in termini di sofferenza e pena, di dubbi, angosce e
disperazioni, di incontri-scontri con un Dio che ama e soffre, che lacrima
sangue, coinvolto com’è nella pena e nella storia dell’uomo e del suo peccato,
delle eterne attese e speranze dell’uomo…
6. La Bellezza
Nella
Palestina di oggi, melagrane ferite d’anni e grani neri, cremisi e violetti e
spazio fessurato, cicatrici di sale sulla fronte, tracce rosse, vesti
dell’incendio, continua l’avventura della coscienza cristiana, sempre in conflitto
tra lo spirito e la lettera del Vangelo (“Finché non fa male, il Vangelo non è quello giusto”,
ripete sempre Fabrizio), tra l’obbedienza alla chiesa e la libertà della
propria personale ricerca, tra la verità rivelata e l’attesa di una verità che
debba ancora manifestarsi.
“ Dalla
ferita nasce il nuovo”, è un altro motto di Centofanti. E tutto ciò s’incarna
in una realtà storica come la nostra che porta i segni della maledizione: l’apparire, l’avere ,
l’indifferenza e l’egoismo. Di qui il
grido che sale dal sangue e dall’anima, dalla carne e dallo spirito, che
promana dalla stessa sconfitta dell’essere e dell’esistere, ossia dalla
disperazione dell’uomo – che è disperazione di Dio e della Croce – di cui il
poeta si fa interprete: “Quali abissi/ di spazio e tempo, in te/ e quanta vita
e quanta morte/stanno in un solo palpito d’amore! / Tu hai, al centro esatto
del cuore, /per virtù di fede e d’arte, / la “gioia”, anzi “l’inno alla gioia”,/
che si dilata fino agli orli del proprio
essere, / nella purificazione del dolore,/ in una nuova armonia di luce, in
vibrazioni di spazi illimiti,/ nel crocevia di arcane animazioni dello Spirito.
La Poesia, – che è in te e nasce dal gemito della storia/ e si fa evento,
inverandosi nel futuro, – può dire, come Dio: “Io sono” è il mio nome// Sono la
bellezza che vi salverà/ l’inascoltata e “inutile” bellezza.
Chi conosce
Fabrizio sa che la sua anima è impervia e colma di stupore, sa che riversa in tutti i suoi scritti; in ogni
sua parola la musica e il fuoco ardente di una coscienza implacabile; sa che
tutta la sua vera sapienza sta nell’oro del cuore; lo sa, e lo ama per questo,
per quella sua costante preghiera del silenzio che è poesia, che si fa
evocazione, annuncio, evento, profezia, fino a identificarsi con Dio. Chi lo
conosce sa dell’ansia di giustizia e
di rinnovamento che lo pervade, delle sue sofferte immersioni nella realtà di
tutti i giorni, per modificarla e
trasformarla, farne una grande avventura cristiana, un campo di mille papaveri rossi. E in Yehoshua, forse il suo capolavoro, tutto ciò lo ritroviamo intatto,
anzi come accresciuto, amplificato, fortificato.
7. L’inferno siamo noi.
In questo
libro Centofanti traffica ai margini della storia universale e del Caos, è
creazione allo stato puro, non ci sono compromessi, né strizzate d’occhio al
lettore, tutta la sua magia, il suo filo d’Arianna, che è l’impegno,
l’applicazione, il costante e duro artigianato da falegname della penna, che fa ogni notte esercizio di catechesi squarciando il proprio
cuore, il suo pudore, la sua angoscia, le sue ferite, la sua trepidante e
indomita anima che attraversa i confini dell’oltre con un battito d’ali di
farfalla per srotolarsi come un tappeto davanti ai nostri piedi, ai nostri
occhi smarriti e increduli. Lui lo sa
bene che l’inferno e il paradiso sono divisi da una sottile linea grigia, che
non è ombra, né luce. “Nessuno
sa la luce /che balena alla murata/ quando una rosa è nata/sul pianto della
terra. Oh, potessimo morire così, nel vento/quando cadono i fiori dei ciliegi/
guardando oltre lo steccato/sopra i muri dell’infanzia/a farci eterni!”
Fabrizio lo sa (e
spesso ce lo dice) che possiamo e dobbiamo salvarci tutti assieme, rimanendo
abbracciati, perché – come amava ripetere don Tonino Bello – “abbiamo un’ala
soltanto e possiamo volare solo rimanendo abbracciati// Noi siamo un fiume
solo/ e se uno ha peccato siamo tutti feriti”. E quella sua costante ricerca, quel suo
senso forte di “comunità”, di fratellanza, di cammino da fare insieme, uniti ,
mano nella mano, fiato a fiato; appreso dal suo maestro e predecessore, è travasato
anche in questo libro. Ci manca un sentiero, una strada da percorrere, ed è
forse questo il dramma dell’uomo nella storia, la disperazione dell’uomo d’oggi
che sembra essere senza futuro. Il nostro è il tempo dei poeti senza ascolto e dei profeti senza Dio.
Per noi, tutti noi, che resta?, e
che infinito ci salva?... Ma in realtà chi siamo noi?,
s’interrogava Calvino, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria di
esperienze, d’informazioni e di letture, d’immaginazione? E mentre si poneva
tali domande già andava elaborando quella sua idea di utopia pulviscolare che
avrebbe trovato la più compiuta
espressione nella pagina conclusiva delle città invisibili, dove dice “L’inferno dei viventi
non è qualcosa che sarà, se ce n’è uno; è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo
tutti i giorni, che formiamo stando insieme”.
La vita è bella,
ma noi la viviamo male. Trasformare questo inferno “degli altri”, di matrice
sartriana, in un paradiso, - ci dice Yehoshua-,
dipende solo da noi, dalle nostre scelte, dalla nostra volontà, dalla nostra
pazienza, dalla nostra capacità di conversione; il paradiso è quando si accende
un seme, e ogni parola palpita, quando ci teniamo per mano, quando ci guardiamo
negli occhi, quando ci abbracciamo e gli universi si sgranano.
8.Il complice
Ma
ci sono anche le tentazioni, i tradimenti, la morte. Yehoshua va nel deserto e viene tentato, chiama a sé i discepoli,
pescatori, viene travisato, viene tradito, opera miracoli, parla in parabole,
muore, senza che vi siano, alla fine,
troppi rimpianti, eccetto da parte di un pugno di fedelissimi. La storia si rifà chiaramente al Vangelo di
Matteo e Marco, ma anche ai vangeli apocrifi, e a tanti altri libri che
Fabrizio ha letto tra i quali mi vengono
in mente il Cristo filosofo di Bulgakov, il Cristo poeta raffinato di Wilde, e
il “Complice” di Borges: ”Mi crocifiggono ed io devo essere la croce e i chiodi/
Mi tendono il calice ed io devo essere la cicuta/ Mi ingannano ed io devo
essere la menzogna/ Mi bruciano ed io devo essere l’inferno/ Devo lodare e
ringraziare ogni istante del tempo/ Il mio nutrimento sono tutte le cose/ Il
peso preciso dell’universo, l’umiliazione, il giubilo/ Devo giustificare ciò
che mi ferisce/ Non importa la mia fortuna o la mia sventura. /Sono il poeta”
E poi c’è la
magnifica Maddalena sul modello di Gibran, che Fabrizio rende una figura di altissima spiritualità,
sublime, indimenticabile, una creatura che Yehoshua
ama fin dal primo istante. “L’amore ?
Ho amato, padre, non ho fatto altro, nonostante la persecuzione e la fatica, ho
condiviso tutto con chi mi odia e mi vorrebbe morto. Ho rischiato di perdermi
ogni giorno nei meandri delle anime, nei sogni e gli incubi di chi mi ha
avvicinato. Fino al giorno in cui ho incontrato, padre, gli occhi che sai .Per
un momento ho vacillato. Per un momento, padre. Ho pensato di trovare lì, per
un momento, quello che cercavo. Ma quando vorrei lasciarmi andare, penso che
l’ami come me, e non è giusto che la porti via, che finisca con sottrarla alla
tua luce. Allora ricordo anch’io quanto mi ami. E capisco che possa amarla,
padre, anche di più; che possa amarla, e basta”(vds. Pag114).
Yeoushua è stato il più formidabile
colpo di gong nel millenario rumore delle agitazioni del mondo, ma nonostante il suo straordinario fascino, pochi
hanno capito chi veramente fosse.
Chi è Yehoshua?
- Bisogna camminare molto per raggiungerlo: terre piene di
sassi ed erba alta, sotto il sole a picco; tunnel senza luce dove si va a
tentoni, sperando di non precipitare in qualche buca. Altre volte ti viene
incontro come il profumo della resina o il vento che soffia tra le rocce. (vds. Pag.68)
9. Vedere Dio con
la mia carne.
La sua
follia e il suo scandalo, la sua folle rivendicazione della giustizia e
dell’amore,
la sua
scandalosa intenzione di fondare l’uomo sulla libertà e sulla dignità non si comprendono
col metro della razionalità e dell’orgoglio... Bisogna sempre
ascoltare il cuore, bisogna ripetere tutti i giorni il “Padre Nostro”,
che unisce tutti gli uomini in Yehoshua, bisogna ripetere quelle semplici e
mirabili sessanta parole con cui ci ha insegnato a parlare con Dio e con gli
uomini. Tutto di noi stessi è in un
viaggio costante. Nulla è perso/ nel dolore che fascia l’universo. Ci sono
pietre di lacrime/ che nessuna tenerezza scioglie…
Troppi muri nel mondo. Ogni Muro ha una sua storia,
una sua giustificazione ma ognuno di questi muri racconta di un fallimento// Il Muro occidentale è una pagina
bianca su cui l’erba selvatica scrive le sue lettere. (vds. Pag130)
E siamo
arrivati alla fine di questo romanzo con una sua sonorità, una sua denuncia
forte che non può raccontarsi, un
romanzo della nostra storia di oggi e di
sempre, dove il messaggio di Yehoshua sta
attraversando paesi e continenti: ovunque si parla di dignità e di libertà:
popoli che finora piegavano la testa ai dittatori si stanno rivoltando; le
inchieste sull’immoralità della politica si moltiplicano come non era mai
successo( vds.pag.130).
E’ un libro
pieno di nobiltà e di tristezza composto
di una poesia smisurata, una “Smisurata
preghiera”, un po’ alla De Andrè che Fabrizio ama molto, ma anche di
smisurata pietà di noi stessi, che ci troviamo sempre di fronte a una pietra,
che spesso è d’inciampo, ma può essere anche di salvezza.
“Soldati col
fucile automatico accucciati dietro un cumulo di pietre, folle di fedeli
prostrati nella stessa direzione, la massa bianca e grigia delle case, l’oro
della cupola, l’incenso nel grembo scuro del santuario, la donna che accarezza
la tomba, non est hic, se non è qui, dov’è? " (vds. Pag.39)
I giudei
giudicano Yehoshua dall’apparenza, che è
quella di un uomo. “Essi – scrive Sant’Agostino - non vedono risplendere nella carne la gloria del figlio
di Dio”.
Vorrei occhi che potessero vedere... Un cuore che
sappia ascoltare...
Vedere Dio con la mia carne.
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