Augusto Benemeglio, La barba d’oro di
Godot
Villaggio Cultura – Pentatonic, 1°
giugno 2014
Quando penso ad Augusto Benemeglio la prima associazione che
mi viene alla mente è una scena dal teatro nel film Chiedimi se sono felice. I tre amici Aldo, Giovanni e Giacomo, tra
battute, disavventure, comici malintesi e ‘trentini’ notturni a basket, tentano
di allestire una versione propria, senz’altro originalissima, di Cyrano de
Bergerac. Ecco, la scena del saluto iniziale tra Cristiano e Cyrano nella
messinscena che ben rende l’atmosfera –
talvolta guascona, sempre piena di vita e attenta al dettaglio che ad altri
sfugge - di serissimo gioco del teatro, ché dietro l’apparente caos, l’allegra
o torva confusione, c’è un pensiero che tende al sistema e che è nutrito e reso
consistente e durevole da passione e ricerca. Qui al Villaggio Cultura–Pentatonic abbiamo
avuto modo di conoscere Augusto Benemeglio come autore di originali – che lui
ama chiamare “recital” – ricostruzioni delle vicende artistiche e biografiche di
Federico Fellini, Rocco Scotellaro, Fabrizio De Andrè, come animatore
dell’incontro sul brigantaggio nel Meridione; alcuni di noi hanno avuto modo di
assistere, o perfino di partecipare, alle rappresentazioni del gruppo da lui
creato presso il Teatro “Don Mario Torregrossa”. La passione che Augusto
profonde in tutto quello che fa e organizza è grande e contagiosa.
Ora, in questo volume che presentiamo oggi, La
barba d’oro di Godot sono raccolti alcuni esempi della sua attività
instancabile di lettore e di affabulatore. È giusto dunque, innanzitutto, introdurre
alcuni dati della sua biografia, come ce li riporta Abele Longo nella sua
prefazione a La barba d’oro di Godot.
«Conosciuto anche con il nome d’arte di
Augusto Buono Libero, Augusto Benemeglio nasce a San Buono (Chieti) il 22
agosto 1943. Presto orfano di madre, vivrà a Roma con la nonna paterna mentre
il padre, e a cui dedicherà il poemetto Ultimo tramonto in Sudafrica (2008), si trasferisce in Sudafrica.
Si arruola in Marina e nel 1977 sbarca in quella che sarà la sua terra
elettiva, il Salento, a Gallipoli, città di molti dei suoi libri, come il
romanzo L’isola e il leone (1984)
e la favola L’isola della luce (1992),
oltre che di lavori teatrali come La Santina di Gallipoli (1994).
Lavora come giornalista, per diverse riviste e
per una televisione locale, e mette su una compagnia teatrale di attori non
professionisti con la quale girerà in lungo e in largo la penisola salentina.
Una volta in pensione, ritrova le sue origini romane trasferendosi ad Acilia,
dove continua la sua fervida attività di scrittore e riprende la passione per
il teatro, fondando il Gruppo Recital 2010. Un gruppo, come dice Augusto, nato
dalla “fusione casuale e arbitraria di spregiatori della quiete, del fratello
fuoco e della sorella televisione,” di gente assolutamente fuori “dalla mischia
degli intellettuali”. Un gruppo che rispecchia lo spirito del suo fondatore,
fuori dagli schemi, allergico alle correnti e alle etichette, profondo
conoscitore delle debolezze umane e del ruolo consolatorio, e perciò prezioso,
dell’arte.»
Il tratto, inconfondibile e anticonformista, che accompagna
tutte le manifestazioni pubbliche e, per noi che proviamo riconoscenza per la
sua amicizia, private di Augusto Benemeglio, si ritrova negli scritti raccolti
qui. Mi piace metterne in evidenza tre aspetti: lo sguardo del lettore e
affabulatore, che naviga con provata esperienza nelle acque comuni e altrui, si
immerge, affonda le mani in materie affini e oscure; l’attenzione ai luoghi; il
collegamento, agile e argomentato, alle grandi voci della letteratura in
particolare e dell’arte in generale.
Augusto Benemeglio sa volgere uno sguardo attento ed esperto,
si è detto, all’altro e all’altrui materia dei sogni. Non è uno sguardo
distaccato, non disdegna l’empatia, ma è pur sempre lucido e sa rendere con
enunciati chiari e significati la sostanza di quei sogni, le caratteristiche di ciascuna scrittura.
Scrive, ad esempio, di Narda Fattori: «si
dimostra una che non cerca consolazione e lacrime dalla poesia, ma piuttosto il
destino della verità, per quanto dura e spietata possa essere. È un tipo che
vuole andare avanti, approfondire, bruciarsi in questo gioco che diventa vita.
Predilige tutto ciò che si fende, si spezza, che è rigido, duro, “virile”, pur
nella sua stupenda femminilità»; e, ancora, di Pasquale Vitagliano, in un
passaggio che ben mostra il talento di Augusto nell’evidenziare gli
‘universali’ della poesia: «E tuttavia rimane il mito che alla fine ci salva. È
il mito della scrittura, l’utopia. Un sentiero difficile e doloroso da
percorrere, ma che Pasquale ha voluto intraprendere con una certa
determinazione. È un requiem senza tenebre, dove il cuore si fa cenere»; della
poesia di Lorenzo Poggi afferma: «Una poesia che sembra presa dal Qoelet, il
libro della Bibbia più enigmatico (e pericoloso) che ci sia. Mi ricorda
l’ultima voce di un uomo che con la sua tristezza insanguinò il vento. E allora
tutti gli angeli persero la vita. Fuorché uno, ferito, con le ali mozze. E
quell’angelo divenne il poeta. Anche Lorenzo Poggi è un poeta dei nostri tempi,
che vive il presente perpetuo nelle sue ossa e nell’anima, in mare aperto».
Degli autori presi in esame viene sempre sottolineato il
legame con i luoghi d’origine e di adozione. Nel caso di Annamaria Ferramosca,
ad esempio, è la capitale, terra d’adozione a rivestire un ruolo di primo
piano: «Ma Annamaria è cittadina del mondo, soprattutto cittadina dell’Urbe: “è in Roma babelica/ che vivo immersa nella
calca” e viaggia spesso in Metropolitana,
che ricorda un po’ la Circolare rossa cardarelliana degli anni Quaranta. Anche
lei guarda visi di uomini e donne, “Tra
foglie e nuvole, a tratti / Eur, Magliana, San Paolo, mi dileguate / quest’aria nera di gallerie romane, / siete
ridenti, oggi, in abiti e parole…”».
Con Ivano Mugnaini, invece, è la nativa Viareggio a far
sentire la propria voce: «Mugnaini è uno di Viareggio, che conosce bene l’arte
delle maschere e delle sfilate dei carri carnascialeschi sul lungomare, il
galoppo dell’onda sulla battigia invernale, coi suoi ossi di seppia, le statue
scolpite dal vento e la danza del mare; uno che è “ancora” toscano e conosce l’arte della Lingua Italiana e della
Parola, che è “l’unico strumento che media mondo e sentimento e, allora deve
essere perfetta”. Se saliamo un poco più su, siamo già in altre terre, in
culture diverse, di frontiera».
Infine gli accostamenti ai grandi della letteratura e
dell’arte, in una visione d’insieme, dal respiro ampio e dalla vista acuta, dalla
conoscenza profonda e dall’udito sensibile a rime, ritmi e timbri, dall’eloquio
privo di falsi timori e, anche in questo, controcorrente. Non manca, in queste
associazioni, il gesto teatrale. Eppure esso è sempre funzionale
all’argomentazione, non è mai istrionica boutade, mai fine a se stesso.
Augusto Benemeglio legge insieme Doris Emilia Bragagnini ed
Emily Dickinson: «Doris non cerca di abbellire se stessa, né adornare la
propria spiritualità, si descrive com’è, come farebbe una Emily Dickinson dei
nostri tempi […], e che tuttavia, pur rimanendo tappata nella sua stanza, senza
voler incontrare nessuno, farebbe uso anche lei del computer, e magari si
farebbe un blog tutto suo, come Doris, e cercherebbe dei contatti con altre
persone sensibili, con i frequentatori di quel nulla infinito e misterioso che
è la poesia».
Per Dominique Villa, che accosta a Mallarmé e a Lautréamont, Augusto
Benemeglio scrive: A Dominique non avevo detto nulla di un vago accostamento
con Novalis (il poeta è un puro acciaio duro come la selce), il poeta che
flirta costantemente con la morte […] Questo precipitare mi rimanda a tanti
poeti […]. Da Hölderlin, vagabondo per le strade del mondo, o chiuso come un
pazzo […] nella torre sul fiume, a Baudelaire paralizzato, cieco da un occhio,
che articola a fatica le labbra per dire con un filo di voce: “Bonjour
Monsieur”; da Verlaine, tra i rifiuti di Parigi, che contende cicche ai
barboni, alla Cvetaeva, coi capelli incollati dal sudore e dal fango, morta di
fatica e di disperazione, che sale su una seggiola, getta una corda sopra una
trave e s’impicca… a Esenin, che va a morire, senza più identità, né contadino,
né borghese, in un bagno pubblico di Mosca, a Pavese, con il suo vizio
assurdo[…]. E la poetessa sembra che sia lì, presente e lo descriva
chirurgicamente prima del gesto ferale».